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8 mesi agoon
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Linda CorsiLa plastica è da anni onnipresente nella nostra quotidianità, ma è anche sempre più demonizzata a causa del suo elevato impatto inquinante.
È quasi impensabile farne a meno ma, in una società sempre più sensibile al tema della salvaguardia del pianeta, si sente fortunatamente parlare più spesso di alternative green, in particolare di bioplastiche da scarti vegetali.
Una plastica è definibile bio quando possiede almeno una di queste caratteristiche:
– È bio-based, ovvero è composta, almeno in parte, da materiali che derivano da biomasse (materiali di origine organica che non hanno subito il processo di fossilizzazione). Anche se bio-based non è sinonimo di biodegradabile;
– È biodegradabile, può dunque essere degradata dai microorganismi.
Si possono identificare diverse tipologie di bioplastiche:
– Bioplastiche non biodegradabili, costituite da materiali a base biologica (PE e il PET bio-based, entrambi fabbricati a partire dalla canna da zucchero);
– PA bio-based, prodotto a partire da oli vegetali;
– Bioplastiche a base biologica e biodegradabili, tra cui ad esempio le miscele di amidi (tipo il MaterBi® utilizzato comunemente per i sacchetti della raccolta dell’umido);
– Bioplastiche biodegradabili costituite da materie prime di origine fossile.
Il principale vantaggio legato alle bioplastiche, prodotte a partire da fonti rinnovabili, è il minor impatto ambientale che generano.
Vengono infatti più facilmente riassorbite dall’ambiente, riducendo così l’inquinamento e l’impatto sull’ecosistema.
Come svantaggio troviamo i costi di produzione ancora piuttosto elevati rispetto alle plastiche convenzionali, fattore che incide purtroppo sul prezzo del prodotto finito.
Sarebbe inoltre necessario regolamentare l’origine e le caratteristiche delle materie prime utilizzate, per evitare di andare ad incrementare ancor di più il fenomeno della deforestazione.
Dunque, le bioplastiche possono essere considerate una buona alternativa alle plastiche tradizionali, ma va comunque tenuto in conto che anch’esse sono ancora lontane dal requisito di totale sostenibilità. Per questo motivo dobbiamo essere attenti a smaltirle correttamente.
E se vi dicessimo che la bioplastica potrebbe essere prodotta a partire da materie totalmente vegetali, ci credereste?
Continuando nella lettura troverete brillanti esempi di produttori di bioplastiche da scarti vegetali, modelli di innovazione dall’Italia e dal mondo.
Si chiama Bioplastica alla vanillina, arriva dagli Stati Uniti e deriva dagli scarti delle biomasse vegetali che si degradano in monomeri quando illuminati da raggi UV-B. Sono veri e propri “mattoncini” a base di vanillina, la celebre molecola aromatica che caratterizza la vaniglia.
La materia prodotta è resistente, duratura e teoricamente riciclabile all’infinito.
Il principale vantaggio derivante dall’impiego di questi polimeri è ambientale poiché, impiegando risorse naturali alternative al petrolio, si contrasta l’inquinamento.
Di contro, questi materiali devono raggiungere la stessa qualità delle plastiche fossili e devono poter essere riciclati in un processo chiuso che non alteri il valore iniziale.
Un altro ottimo esempio viene dalla Svezia, un materiale bioplastico chiamato potato plastic, ovvero la “plastica di patate“, 100% biodegradabile in quanto realizzata solamente con fecola di patate ed acqua.
Questo composto viene prima riscaldato facendolo addensare, poi viene fatto raffreddare e messo in stampi. Ne risulta un materiale termoplastico che, una volta raffreddato, si indurisce diventando molto resistente.
È ideale per posate monouso.
In Islanda gli ingredienti per la plastica ecologica sono solo due: acqua e l’aggiunta di una polvere ricavata da un’alga rossa, l’agar.
Questi due elementi insieme danno vita ad un composto gelatinoso: una volta fatto riscaldare, messo in degli stampi e successivamente posto qualche minuto in congelatore, da vita a bottiglie e contenitori ecologici e naturalmente biodegradabili.
Curiosità non da poco: il composto è inoltre commestibile.
Dall’azienda bolognese Bio-on arrivano numerose alternative alla plastica derivata dal petrolio, riciclando scarti vegetali come le barbabietole, le patate, la canna da zucchero sino all’olio da frittura.
I veri protagonisti di questa rivoluzione green nel settore della plastica? I batteri.
Da questo banchetto i batteri producono riserve di energia che vengono trasformate in poliestere lineare che, attraverso delle procedure meccaniche, diventa plastica biodegradabile, con caratteristiche di resistenza simili a quella tradizionale.
L’Istituto italiano di Tecnologia (Iit) di Genova è sempre più specializzato nelle scoperte relative ai nuovi materiali, oltre ad essere promotore di un’attenta e avanzatissima attività di riuso e di riciclo.
L’ultima scoperta riguarda gli scarti vegetali, e in particolare quelli che arrivano da caffè, prezzemolo e cannella, ma anche delle bucce di arancia.
Dal riso, ad esempio, si può creare una plastica piuttosto dura, mentre con le piante si ottiene un materiale più morbido.
Quella con la cannella ha addirittura una funzione antibatterica.
In pratica, i ricercatori hanno messo a punto un sistema che impasta i residui vegetali con solventi o polimeri biocompatibili. Da questa miscela nasce una nuova bioplastica, molto flessibile, elastica, poco costosa, e soprattutto non inquinante.
Un procedimento che, in linea di principio, potrebbe essere applicato a tutti gli oggetti di uso quotidiano e non solo agli scarti alimentari.
Per questa ragione si tratta di un vero e proprio balzo nel futuro, che consente di essere all’avanguardia in un settore, quello delle bioplastiche da scarti vegetali, che è sempre più targato “Made in Italy”.
Quella della bioplastiche da scarti vegetali e delle alternative naturali alla plastica sembra essere dunque una nuova frontiera da continuare ad esplorare e approfondire.
La strada è quella giusta e ci aspettiamo ancora grandi innovazioni, poiché questa nuova tecnologia aiuta a risparmiare e allo stesso tempo, a non inquinare.